Poiché da diversi secoli la cripta sottostante l’altare papale accoglieva le tombe dei papi scomparsi, Pio XII ordinò di risistemare l’area perché vi si potesse accogliere il sarcofago di Pio XI.
Gli scavi vennero affidati al professor Enrico Josi, ai gesuiti Antonio Ferrua ed Engelbert Kirschbaum, all’architetto Bruno Maria Apollonj Ghetti e furono svolti sotto la direzione di monsignor Ludwig Kaas.
Appena si iniziò a scavare fu chiaro che ci si era imbattuti in una “piccola Pompei” ricca di sepolture e resti di antichi muri, un’antica necropoli che sorgeva a nord del circo di Nerone con grandi stanze coperte a volta, ornate con pregevoli pitture, decorazioni a stucco e talvolta mosaici.
Appena si iniziò a scavare fu chiaro che ci si era imbattuti in una “piccola Pompei” ricca di sepolture e resti di antichi muri, un’antica necropoli che sorgeva a nord del circo di Nerone con grandi stanze coperte a volta, ornate con pregevoli pitture, decorazioni a stucco e talvolta mosaici.
In particolare sotto l’altare della Confessione venne ritrovato un piccolo campo funebre per tombe interrate, delimitato su un lato da un muro dipinto di rosso, databile al II secolo, circondato da un muro di protezione di era costantiniana con iscrizioni graffite che invocano Cristo e Pietro, oltre ad una scritta dubbiosamente interpretata in “PETRUS ENI” (vedi foto).
L’annuncio
«Nei sotterranei della Basilica Vaticana ci sono i fondamenti della nostra fede. La conclusione finale dei lavori e degli studi risponde un chiarissimo sì: la tomba del Principe degli apostoli è stata ritrovata».
Così papa Pio XII diede l’incauto annuncio, a conclusione del Giubileo del 1950, del riconoscimento della sepoltura di Pietro, di cui aveva ordinato le ricerche per soddisfare le volontà di Pio XI, che nel suo testamento aveva chiesto di essere sepolto “quanto più vicino fosse stato possibile alla Confessione di San Pietro”.
Tuttavia ulteriori ricerche confermarono che la tomba però era priva di resti umani. Si evitò di fare altra pubblicità e sull’intera faccenda calò il silenzio.
Tre anni dopo l’illustre storica ed epigrafista cattolica Margherita Guarducci (nella foto) scese sotto l’altare papale a studiare i graffiti.
“Mentre mi scervellavo – scriverà poi la Guarducci - per trovare una via dentro quella selva selvaggia, mi venne in mente che forse mi sarebbe stato utile sapere se qualche altra cosa fosse stata trovata nel sottostante loculo, oltre i piccoli resti descritti dagli scavatori nella relazione ufficiale”.
Parlando col sampietrino Giovanni Segoni, costui confessò che dei resti umani erano stati trovati nel loculo da lui e Kaas (nel frattempo deceduto), ma erano stati asportati per poterli archiviare. In un magazzino della Reverenda Fabbrica della Basilica di San Pietro, dunque, la Guarducci rinvenne la cassa fatidica, opportunamente catalogata.
Padre Ferrua, anche a nome degli altri tre protagonisti dello scavo, su pressante invito del sostituto mons. Giovanni Benelli, entrò in polemica con la Guarducci, facendo pervenire alla Segreteria di Stato un memoriale di 11 pagine in cui affermava ancora una volta che non s’era trovata alcuna reliquia di san Pietro.
Tuttavia la Guarducci continuò a sostenere la sua tesi di fronte a Paolo VI, con una replica di ben 45 pagine. “La solita valanga di parole in mancanza di fatti precisi”, commentò Ferrua su «Civiltà Cattolica». Paolo VI, però, cosciente del potenziale scoop, dette ragione alla Guarducci.
La contestata cassetta conteneva dunque le ossa di Pietro?
La Guarducci era eccitata e convinta di aver trovato le reliquie dell’apostolo e le fece sottoporre ad esame antropologico che confermò trattarsi dello scheletro di un uomo anziano (60/70 anni), avvezzo alla fatica fisica. Tali ossa risultavano essere sporche della terra del colle, e di frammenti dell’intonaco del muro rosso ed erano state avvolte, prima della deposizione, in un elegante panno di lana colorato di porpora e intessuto d’oro.
Invece di pensare, come farebbe un normale uomo di scienza non accecato dall’appartenenza religiosa, che tutto quello che aveva dimostrato era che in quel punto era stato sepolto un ricco, anziano e robusto romano del II secolo, la Guarducci concluse che la scritta che “forse” recitava PETRUS ENI era la prova che quelle erano le ossa del giudeo del I secolo, apostolo di Gesù, e non forse che si trattasse di qualcuno che, magari per devozione ai vangeli, si fosse ugualmente chiamato Pietro.
Quanto al fatto che i resti erano stati dimenticati, secondo la Guarducci si trattò di una somma di strane coincidenze: lo scavo era avvenuto in condizioni difficili, c’era la guerra e la consegna del silenzio era molto forte. Della Guarducci il vicepresidente del Senato Domenico Contestabile ebbe a scrivere:“La professoressa Guarducci (non voglio metterne in discussione la buona fede) è una archeologa che ha grandi ed illustri precedenti, Schliemann ed Evans: trova quello che ha deciso di trovare”.
Il 26 giugno 1968 Paolo VI, durante l’udienza pubblica nella Basilica Vaticana, con una certa impudenza, ma attento a perpetuare quel culto delle reliquie che tanti pellegrini ed offerte aveva portato in Vaticano da secoli, ebbe il coraggio di annunciare :
«Nuove indagini pazientissime e accuratissime furono in seguito eseguite con risultato che noi, confortati dal giudizio di valenti e prudenti persone competenti, crediamo positivo: anche le reliquie di san Pietro sono state identificate in modo che possiamo ritenere convincente, e ne diamo lode a chi vi ha impiegato attentissimo studio e lunga e grande fatica. Non saranno esaurite con ciò le ricerche, le verifiche, le discussioni e le polemiche. Ma da parte nostra ci sembra doveroso, allo stato presente delle conclusioni archeologiche e scientifiche, dare a voi e alla Chiesa questo annuncio felice, obbligati come siamo a onorare le sacre reliquie, suffragate da una seria prova della loro autenticità [...] e nel caso presente tanto più solleciti ed esultanti noi dobbiamo essere, quando abbiamo ragione di ritenere che siano stati rintracciati i pochi, ma sacrosanti, resti mortali del Principe degli apostoli».
Poi ordinò di sigillare nel loculo le ossa, chiuse in scatole di plexiglas insieme ad una iscrizione in cui si dice che quei resti “si pensa” siano dell’Apostolo Pietro.
Oggi tali resti sono nuovamente visibili dai fedeli, che si accostano trepidanti e devoti come facevano 1.700 anni fa con le fasulle reliquie eleniane come i tre chiodi ed i frammenti della croce di Cristo.
È singolare che ancora oggi, ignorando la dinamica dei fatti, ci siano un’infinità di cattolici che sostengono come quei resti e quella sepoltura siano la prova del soggiorno di Pietro a Roma!!!
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