Per secoli nessuno ha mai osato mettere in dubbio che San Pietro fu il primo Vescovo di Roma e qui venne martirizzato sotto la persecuzione di Nerone del 64 d.C.
Pochi tuttavia sanno che non esistono prove storicamente e filologicamente sostenibili che ciò sia avvenuto, che tutta la tradizione che ha tramandato tale venuta si è formata oltre un secolo dopo i fatti e che in Turchia e Siria esiste una tradizione ugualmente solida che attesta che Pietro operò tra la Palestina e la Siria, dove morì come Vescovo di Antiochia.
Il mito del soggiorno di Pietro a Roma nacque tardivamente, almeno 150 anni dopo la morte di Gesù, e venne costruito a tavolino per affermare il traballante primato del Vescovo di Roma sulle altre diocesi dell’Impero.
Semplicemente approfondendo la questione del primato del vescovo di Roma. Una questione che nasce da lontano, ma che è alla base della legittimazione del Vaticano che ha fondato tutto il suo magistero sulla Successione Apostolica.
Dottrina ed “eresie”
Partiamo da una premessa sostanziale: fino al medioevo non esisteva un “papa” ma solo “vescovi.
Il concetto di “papa” come lo intendiamo oggi nasce al tempo dei Franchi, tra il 700 e l’800, quando per legittimare la sovranità sulla cristianità ed il potere temporale la Chiesa fabbricò addirittura un falso: “La donazione di Costantino”.
Nel I, II e III secolo in tutto il mondo civilizzato le religioni, ebraismo e cristianesimo inclusi, erano gestite localmente. Come non esisteva un capo assoluto che avesse autorità su tutti templi di Iside, o di Cibele, o di Apollo sparsi per l’Impero, non esisteva alcun vescovo cristiano che avesse autorità sugli altri vescovi.
Men che mai quello che stava a Roma. Fino a quando gli imperatori ebbero come base l’Urbe i Vescovi romani tennero un profilo piuttosto basso, poi quando l’asse dell’impero si spostò ad oriente quella di Roma benché prestigiosa fu una diocesi considerata di pari autorevolezza di quelle di Alessandria, Antiochia, Gerusalemme.
Tuttavia l’auctoritas del capo della diocesi romana sembrava promanare da quella dell’Urbe stessa e poteva rappresentare un faro unitario che potesse difendere una dottrina comune dalle numerose interpretazioni che sorgevano ai quattro angoli dell’impero: fu per questo che i vescovi romani, mentre tentavano di imporsi agli altri vescovi, dovettero trovare qualcosa in grado di legittimare quella che, per i tempi, era una vera e propria rivoluzione: l’istituzione di una gerarchia piramidale.
Eresia e giurisdizione erano in realtà due facce della stessa medaglia: gerarchia e dottrina unica ed omogenea furono i due fattori indispensabili per costruire il potere temporale della Chiesa di Roma, che tuttavia necessitava di essere legittimato da un fatto concreto che nel II secolo era ancora assente dalla tradizione e dalla letteratura e che a lume di logica era del tutto inverosimile.
I fatti storici
La tradizione cattolica vuole che Pietro sia venuto una prima volta a Roma, sotto Claudio. Di tale viaggio non c’è traccia negli “Atti degli Apostoli” l’unica fonte pervenutaci, insieme alle Epistole di S.Paolo che abbia attendibilità storica e che solitamente è ricca di dettagli.
Negli “Atti”(12,17) invece si narra di come Pietro venne arrestato da Erode e poi liberato da un angelo.
La tradizione cattolica vuole che Pietro sia venuto una prima volta a Roma, sotto Claudio. Di tale viaggio non c’è traccia negli “Atti degli Apostoli” l’unica fonte pervenutaci, insieme alle Epistole di S.Paolo che abbia attendibilità storica e che solitamente è ricca di dettagli.
Negli “Atti”(12,17) invece si narra di come Pietro venne arrestato da Erode e poi liberato da un angelo.
“Egli allora, fatto segno con la mano di tacere, narrò come il Signore lo aveva tratto fuori del carcere, e aggiunse: «Riferite questo a Giacomo e ai fratelli». Poi uscì e s’incamminò verso un altro luogo”.
Per far tornare i conti, ed usando una buona dose di fantasia, gli esegeti interpretano questo “altro luogo” come Roma. Il mese successivo Erode Agrippa, muore d’infarto:
“Nel giorno fissato Erode, vestito del manto regale e seduto sul podio, tenne loro un discorso. Il popolo acclamava: «Parola di un dio e non di un uomo!». Ma improvvisamente un angelo del Signore lo colpì, perché non aveva dato gloria a Dio; e roso, dai vermi, spirò” (Atti 12, 21).
La storia, quella vera, ci dice che Erode Agrippa morì qualche settimana dopo la Pasqua del 44. Quindi, a dar retta alla tradizione Pietro, senza mezzi, in meno di cinque anni avrebbe compiuto un viaggio lunghissimo e pericoloso (senza che ve ne fosse alcun motivo visto che aveva sempre combattuto l’idea di estendere ai Gentili la nuova dottrina ebraica di Gesù), avrebbe soggiornato a Roma durante l’imperium di Claudio per il tempo necessario a fondare la comunità e sarebbe poi tornato a Gerusalemme nel 50, in tempo per partecipare al famoso concilio?
Non solo: da un’attenta lettura dell’epistola ai Galati, Pietro risulterebbe essere fra il 45 e il 48 ad Antiochia, dove si scontrò con Paolo:
“11.Ma quando Cefa venne ad Antiochia, mi opposi a lui a viso aperto perché evidentemente aveva torto. 12. Infatti, prima che giungessero alcuni da parte di Giacomo, egli prendeva cibo insieme ai pagani; ma dopo la loro venuta, cominciò a evitarli e a tenersi in disparte, per timore dei circoncisi. 13. E anche gli altri Giudei lo imitarono nella simulazione, al punto che anche Barnaba si lasciò attirare nella loro ipocrisia. 14. Ora quando vidi che non si comportavano rettamente secondo la verità del vangelo, dissi a Cefa in presenza di tutti: «Se tu, che sei Giudeo, vivi come i pagani e non alla maniera dei Giudei, come puoi costringere i pagani a vivere alla maniera dei Giudei”?
Gli Atti, oltre a non parlare mai di una presenza di Pietro a Roma, ci mostrano Pietro come figura preminente nel gruppo giudaico – cristiano, ma sempre in posizione subalterna a Giacomo, il fratello di Gesù.
Nel concilio citato, Pietro introduce la questione dell’accettazione dei Gentili nella comunità dei cristiani senza che essi passino per la conversione all’ebraismo, sintetizzata e simboleggiata nella circoncisione, ma chi conclude e decide è Giacomo. Se Pietro fosse già stato riconosciuto come capo della nascente Chiesa, perché il Concilio di Gerusalemme, pietra angolare di tutte le scelte che sarebbero state fatte da quel momento in avanti, venne convocato e presieduto da Giacomo e non da lui?
La tradizione poi ci racconta che Pietro è ancora a Roma dopo il 55, dove morrà crocifisso a testa in giù nel 64, durante la persecuzione neroniana.
Contraddizioni ed incongruenze
Per far tornare i conti, ed usando una buona dose di fantasia, gli esegeti interpretano questo “altro luogo” come Roma. Il mese successivo Erode Agrippa, muore d’infarto:
“Nel giorno fissato Erode, vestito del manto regale e seduto sul podio, tenne loro un discorso. Il popolo acclamava: «Parola di un dio e non di un uomo!». Ma improvvisamente un angelo del Signore lo colpì, perché non aveva dato gloria a Dio; e roso, dai vermi, spirò” (Atti 12, 21).
Non solo: da un’attenta lettura dell’epistola ai Galati, Pietro risulterebbe essere fra il 45 e il 48 ad Antiochia, dove si scontrò con Paolo:
“11.Ma quando Cefa venne ad Antiochia, mi opposi a lui a viso aperto perché evidentemente aveva torto. 12. Infatti, prima che giungessero alcuni da parte di Giacomo, egli prendeva cibo insieme ai pagani; ma dopo la loro venuta, cominciò a evitarli e a tenersi in disparte, per timore dei circoncisi. 13. E anche gli altri Giudei lo imitarono nella simulazione, al punto che anche Barnaba si lasciò attirare nella loro ipocrisia. 14. Ora quando vidi che non si comportavano rettamente secondo la verità del vangelo, dissi a Cefa in presenza di tutti: «Se tu, che sei Giudeo, vivi come i pagani e non alla maniera dei Giudei, come puoi costringere i pagani a vivere alla maniera dei Giudei”?
Che motivi avrebbe avuto Pietro di venire a Roma? Ebreo di umili origini e di credenze semplici, che mai avrebbe voluto contaminare le sue usanze e le sue tradizioni mischiandosi ai Gentili, aveva combattuto una battaglia lunga oltre 10 anni contro l’idea di Paolo (accettata poi obtorto collo), che intendeva dividere la sfera di evangelizzazione riservandosi i gentili, e lasciando al gruppo di Gerusalemme gli ebrei.
Venire a Roma avrebbe per lui significato tradire le proprie convinzioni, la propria visione del messaggio di Gesù e - in fin dei conti - la propria fede.
Ed ancora: mentre sappiamo tutto sulla geografia e la tempistica dei viaggi di Paolo, perché non sappiamo nulla di quelli di Pietro? Ma soprattutto: conoscendo le difficoltà enormi incontrate da Paolo, cittadino romano, nel suo lungo e pericoloso viaggio verso Roma (oltretutto a spese del governo), ci domandiamo come un pescatore ebreo ignorante e semianalfabeta abbia potuto trovare i mezzi per affrontare ben due viaggi del genere.
Stanti tali fatti, perché gli Atti non menzionano neppure di sfuggita tali spostamenti di Pietro, di cui si parla diffusamente per oltre metà dell’opera?
E, soprattutto, perché Paolo nella sua “epistola ai Romani” del 58 (e in nessuna altra epistola) non nomina mai Pietro e una sua qualche attività a Roma?
Infine, come mai nelle due epistole attribuitegli neppure Pietro fa alcun riferimento a Roma, ad ambienti romani, a personaggi o situazioni romane?
Ed ancora: mentre sappiamo tutto sulla geografia e la tempistica dei viaggi di Paolo, perché non sappiamo nulla di quelli di Pietro? Ma soprattutto: conoscendo le difficoltà enormi incontrate da Paolo, cittadino romano, nel suo lungo e pericoloso viaggio verso Roma (oltretutto a spese del governo), ci domandiamo come un pescatore ebreo ignorante e semianalfabeta abbia potuto trovare i mezzi per affrontare ben due viaggi del genere.
Stanti tali fatti, perché gli Atti non menzionano neppure di sfuggita tali spostamenti di Pietro, di cui si parla diffusamente per oltre metà dell’opera?
E, soprattutto, perché Paolo nella sua “epistola ai Romani” del 58 (e in nessuna altra epistola) non nomina mai Pietro e una sua qualche attività a Roma?
Infine, come mai nelle due epistole attribuitegli neppure Pietro fa alcun riferimento a Roma, ad ambienti romani, a personaggi o situazioni romane?
Il silenzio delle fonti fino al 180 d.C.
Non c’è nessuna testimonianza attendibile anteriore al 180 d.C. della presenza di Pietro a Roma ma, contestualmente è assordante il silenzio su tale presenza non solo da parte di Paolo, ma anche in testimoni come Giustino di Nablus, di cui abbiamo molti scritti e perfino gli atti del suo processo da parte romana, nel 168.
Disponiamo invece solo di testimonianze di terza e quarta battuta come quelle dell’inizio del terzo secolo (Origene e Tertulliano) che poi esplodono dopo la rivoluzione di Costantino attraverso tutta la letteratura promossa da Eusebio di Cesarea al fine di fondare e dare organicità ad una dottrina univoca.
Chiunque legga le argomentazioni che la maggior parte dei teologi utilizzano per dimostrare che Pietro ha subito il martirio a Roma, si renderà conto che essi citano come prova fonti del IV secolo: scritte da vescovi che erano CERTI di tale venuta, perché (se proprio vogliamo accreditarli di buona fede) ne sentivano parlare come di cosa vera da oltre centotrenta anni!
La mitologia su Pietro
Le numerose leggende sugli eventi relativi alla permanenza di San Pietro a Roma, come ad esempio quella di “S.Pietro in vinculis” o quelle sulla sfida di fronte a Nerone tra San Pietro e Simon Mago, nascono dopo il 400, quando la presenza di Pietro a Roma è ormai un fatto assodato e sono legate alla grande importanza delle reliquie per l’economia di quel periodo.
Le leggende sulla sfida tra San Pietro e Simon Mago di fronte a Nerone nascono dopo il 400, quando la presenza di Pietro a Roma è ormai un fatto assodato e sono legate alla grande importanza che le reliquie rivestivano per l’economia di quel periodo.
Quanto a Simon Mago, tutto ciò che abbiamo di lui è in Atti, 9-20: “V’era da tempo in città un tale di nome Simone, dedito alla magia, il quale mandava in visibilio la popolazione di Samarìa, spacciandosi per un gran personaggio. A lui aderivano tutti, piccoli e grandi, esclamando: «Questi è la potenza di Dio, quella che è chiamata Grande». Gli davano ascolto, perché per molto tempo li aveva fatti strabiliare con le sue magie”.
Dopo aver ascoltato le prediche del diacono Filippo, Simone decise di farsi battezzare. Successivamente, però, cercò di comperare da san Pietro il potere di conferire, con la semplice imposizione delle mani, lo Spirito Santo, incorrendo nelle ire dell’Apostolo. Da questo antico tentativo di commercio di cose sacre deriva il termine di simonia.
Ulteriori testimonianze sulla sua vita sono pura agiografia, in quanto derivano da tardi testi apocrifi come gli Atti di San Pietro (posteriori alla compilazione dell’elenco dei primi papi da parte di Egesippo e scritti intorno al 200 d.C. da un tal Leucio Carino, che si proclamava discepolo di Giovanni. In questi “Atti” si racconta anche la leggenda della crocefissione a testa in giù.) o le Pseudo-clementine che lo vogliono a Roma sotto Claudio e Nerone.
Qui ottenne fama e gloria, ma fu sfidato ad un confronto pubblico da San Pietro e san Paolo.
Ulteriori testimonianze sulla sua vita sono pura agiografia, in quanto derivano da tardi testi apocrifi come gli Atti di San Pietro (posteriori alla compilazione dell’elenco dei primi papi da parte di Egesippo e scritti intorno al 200 d.C. da un tal Leucio Carino, che si proclamava discepolo di Giovanni. In questi “Atti” si racconta anche la leggenda della crocefissione a testa in giù.) o le Pseudo-clementine che lo vogliono a Roma sotto Claudio e Nerone.
Qui ottenne fama e gloria, ma fu sfidato ad un confronto pubblico da San Pietro e san Paolo.
Sostenendo di poter essere seppellito per poi risorgere dopo tre giorni, morì nella prova. Un’altra leggenda afferma invece che, nel tentativo di mostrare a Nerone la sua capacità di levitazione, precipitò morendo sul colpo grazie alle preghiere di Pietro e Paolo (comportamento molto edificante e cristiano!).
Tornando alla presunta incarcerazione di Pietro nel Tullianum è interessante notare come i miti si sovrappongano nel tempo e come, col passare dei secoli, una leggenda possa diventare verità conclamata e determinare accadimenti che generano altre leggende: nel quinto secolo l’imperatrice Augusta Eudossia, moglie dell’Imperatore d’Oriente Valentiniano III (425-455), volle donare le catene della prigionia di San Pietro a Gerusalemme al Papa San Leone Magno (440-461). Questi, accostando tali catene a quelle della prigionia di San Pietro a Roma, al carcere Mamertino, fu testimone di un fatto prodigioso: le due catene si fusero in un’unica catena, ancora oggi visibile.
Ma, si sa, le leggende non solo sono dure a morire, ma divengono fonte di profitto per i furbi. Ne è prova l’avvilente sfruttamento commerciale della leggenda del carcere Mamertino, con gli operatori che arrivano a pubblicizzare “il carcere dei martiri Pietro e Paolo” sui bus turistici conducendo frotte di ignari turisti a visitare un luogo che meriterebbe ben altra memoria, carico com'è di storia vera.
Le “prove” addotte dalla Chiesa Cattolica
La più antica prova che viene addotta dalla Chiesa sulla venuta di Pietro a Roma è la “lettera ai Corinzi” di Clemente Romano che viene indicato come quarto nell’elenco dei Papi secondo l’elenco stilato nel 160 da Egesippo di cui parleremo (ed ampiamente!) fra poco. Tale lettera, datata con probabilità al 96 d.C, probabilmente non se l’è letta mai nessuno se ancora si ha il coraggio di addurla come prova. Giudicate voi:
“Ma lasciando gli esempi antichi, veniamo agli atleti vicinissimi a noi e prendiamo gli esempi validi della nostra epoca. Per invidia e per gelosia le più grandi e giuste colonne furono perseguitate e lottarono sino alla morte. Prendiamo i buoni apostoli. Pietro per l’ingiusta invidia non una o due, ma molte fatiche sopportò, e così col martirio raggiunse il posto della gloria. Per invidia e discordia Paolo mostrò il premio della pazienza. Per sette volte portando catene, esiliato, lapidato, fattosi araldo nell’oriente e nell’occidente, ebbe la nobile fama della fede.
Dopo aver predicato la giustizia a tutto il mondo, giunto al confine dell’occidente e resa testimonianza davanti alle autorità, lasciò il mondo e raggiunse il luogo santo, divenendo il più grande modello di pazienza”.
Qualcuno mi dovrebbe indicare in quale punto è nominata Roma. È ridicolo pensare come si possa citare questo passo come prova del soggiorno di Pietro a Roma, effettuando l’arbitraria deduzione che il “noi”, piuttosto che alla comunità dei seguaci di Gesù, si riferisse ai romani, per il semplice fatto che Clemente era romano e scriveva da Roma.
La successiva “fonte” portata come prova è una lettera ai romani scritta da Ignazio di Antiochia, probabilmente nel 107.
“Ma lasciando gli esempi antichi, veniamo agli atleti vicinissimi a noi e prendiamo gli esempi validi della nostra epoca. Per invidia e per gelosia le più grandi e giuste colonne furono perseguitate e lottarono sino alla morte. Prendiamo i buoni apostoli. Pietro per l’ingiusta invidia non una o due, ma molte fatiche sopportò, e così col martirio raggiunse il posto della gloria. Per invidia e discordia Paolo mostrò il premio della pazienza. Per sette volte portando catene, esiliato, lapidato, fattosi araldo nell’oriente e nell’occidente, ebbe la nobile fama della fede.
Dopo aver predicato la giustizia a tutto il mondo, giunto al confine dell’occidente e resa testimonianza davanti alle autorità, lasciò il mondo e raggiunse il luogo santo, divenendo il più grande modello di pazienza”.
A proposito di Antiochia...
Un’altra considerazione sulla impossibilità della presenza a Roma di Pietro.
Tutte le fonti indicano Ignazio come immediato successore di Pietro all’episcopato di Antiochia.
Ora noi sappiamo che il cosiddetto “incidente di Antiochia” avviene immediatamente prima del Concilio di Gerusalemme che pone gli episodi fra il 49 e il 51 e che Pietro esce dalla storia con il suo discorso durante il Concilio di Gerusalemme: dopo quell’intervento gli Atti non parlano più di lui.
Possiamo, quindi, fare soltanto delle ipotesi. Pietro non può tornare ad Antiochia che dopo il 52, giacché nel 51 furono Paolo, Barnaba, Giuda e Sila a recarvisi per riferire le decisioni prese. Ammettiamo che dal 52 divenga formalmente il “vescovo” di Antiochia e che abbia mantenuto tale carica per due soli anni, (un po’pochi per affermare una tradizione che in Oriente è invece viva e conosolidata) per poi intraprendere il suo viaggio che lo porterà a Roma nel 55.
Tutto ciò premesso se ne deduce che Ignazio dovrebbe aver avuto l’investitura a vescovo di Antiochia nel 54. Quanti anni poteva avere? Anche se fosse stato molto giovane è difficile pensare che un vescovo abbia potuto essere un adolescente. Ipotizziamo che avesse 30-35 anni, età appena plausibile, anche perché le fonti ci dicono che non nacque cristiano e che si convertì da adulto.
Considerato che è stato giustiziato nel 107 dovremmo dedurre che abbia affrontato poco meno che novantenne l’improbo viaggio di quasi 3.000 km. durante il quale fu così vitale da scrivere epistole come un grafomane!
Poco convincente. è molto più logico pensare che Pietro dopo il 52 si recò ad Antiochia, di cui fu vescovo fino alla morte con data e modalità storicamente ignote e Ignazio gli sia succeduto intorno al 70-75 d.C.
Il viaggio di Ignazio
Questo Ignazio fu il successore di Pietro alla guida della comunità di Antiochia ed era stato arrestato sotto Traiano con capo di imputazione a noi sconosciuto. Inviato a Roma per il supplizio percorse per mare il tratto che dalla Siria lo portò in Panfilia; poi, per via di terra, attraversò la Caria e la Lidia (tutte province dell’Asia minore) e così giunse a Smirne e, da lì, per via mare, alla Troade. Arrivato a Roma, fu fatto dilaniare dalle fiere nel 107. Durante il viaggio, riuscì a comporre sette lettere: da Smirne scrisse alle comunità dell’Asia Minore (Efeso, Magnesia e Tralle) e poi ai Romani per impedir loro di intercedere in suo favore presso Traiano; da Troade scrisse alle comunità di Filadelfia e di Smirne e, infine, a Policarpo.
“Scrivo a tutte le Chiese e annunzio a tutti che io muoio volentieri per Dio, se voi non me lo impedite. Vi prego di non avere per me una benevolenza inopportuna. Lasciate che sia pasto delle belve per mezzo delle quali mi è possibile raggiungere Dio. Sono frumento di Dio e macinato dai denti delle fiere per diventare pane puro di Cristo. Piuttosto accarezzate le fiere perché diventino la mia tomba e nulla lascino del mio corpo ed io morto non pesi su nessuno. Allora sarò veramente discepolo di Gesù Cristo, quando il mondo non vedrà il mio corpo. Pregate il Signore per me perché con quei mezzi sia vittima per Dio. Non vi comando come Pietro e Paolo. Essi erano apostoli, io un condannato; essi erano liberi io tuttora uno schiavo. Ma se soffro sarò affiancato in Gesù Cristo e risorgerò libero in lui. Ora incatenato imparo a non desiderare nulla”.
Assumere il “non vi comando come Pietro e Paolo” come prova di un comando diretto di Pietro come Vescovo di Roma è un’operazione al limite del raggiro. La locuzione può riferirsi ad un “comando” carismatico esercitato su tutta la comunità, ma non va dimenticato che Pietro era succeduto a Simeone come capo della comunità di Antiochia, quindi non è improbabile che il suo successore Ignazio lo vedesse come uno che aveva “comandato”. Che la deduzione sia arbitraria lo dimostra anche il fatto che se per tale frase si dimostrava che Pietro era stato Vescovo di Roma avrebbe dovuto esserlo stato, automaticamente, anche Paolo.
L’esegeta onesto deve affermare che questo testo non prova né che Pietro abbia comandato a Roma, né il suo contrario. Si tratta di una testimonianza del tutto irrilevante per il problema in questione.
Mi permetto solo una brevissima annotazione sulla lunghezza, la difficoltà e le molte tappe (corrispondenti ad altrettante lettere) di questo viaggio “in vinculis” fino a Roma per sottolineare ancora una volta come esso fosse difficile e complesso e quanto improbabile sia l’ipotesi che Pietro abbia potuto compierne due (ciascuno con andata e relativo ritorno) in pochi anni e senza lasciarne traccia. Ugualmente tralascerò ogni testimonianza di cui non possediamo fonti di prima mano ma che esistono solo attraverso racconti o citazioni di Eusebio di Cesarea nella sua Storia Ecclesiastica, autore storicamente inattendibile, giacché ciò che scrive è strumentale agli scopi del disegno politico costantiniano: quindi ciò che lui afferma che abbiano scritto Dionigi di Corinto, Clemente Alessandrino e Papia di Gerapoli (scritti per noi perduti) non prova assolutamente nulla.
Questo Ignazio fu il successore di Pietro alla guida della comunità di Antiochia ed era stato arrestato sotto Traiano con capo di imputazione a noi sconosciuto. Inviato a Roma per il supplizio percorse per mare il tratto che dalla Siria lo portò in Panfilia; poi, per via di terra, attraversò la Caria e la Lidia (tutte province dell’Asia minore) e così giunse a Smirne e, da lì, per via mare, alla Troade. Arrivato a Roma, fu fatto dilaniare dalle fiere nel 107. Durante il viaggio, riuscì a comporre sette lettere: da Smirne scrisse alle comunità dell’Asia Minore (Efeso, Magnesia e Tralle) e poi ai Romani per impedir loro di intercedere in suo favore presso Traiano; da Troade scrisse alle comunità di Filadelfia e di Smirne e, infine, a Policarpo.
“Scrivo a tutte le Chiese e annunzio a tutti che io muoio volentieri per Dio, se voi non me lo impedite. Vi prego di non avere per me una benevolenza inopportuna. Lasciate che sia pasto delle belve per mezzo delle quali mi è possibile raggiungere Dio. Sono frumento di Dio e macinato dai denti delle fiere per diventare pane puro di Cristo. Piuttosto accarezzate le fiere perché diventino la mia tomba e nulla lascino del mio corpo ed io morto non pesi su nessuno. Allora sarò veramente discepolo di Gesù Cristo, quando il mondo non vedrà il mio corpo. Pregate il Signore per me perché con quei mezzi sia vittima per Dio. Non vi comando come Pietro e Paolo. Essi erano apostoli, io un condannato; essi erano liberi io tuttora uno schiavo. Ma se soffro sarò affiancato in Gesù Cristo e risorgerò libero in lui. Ora incatenato imparo a non desiderare nulla”.
La prima testimonianza storica
La prima testimonianza che attesta l’istituzione della chiesa di Roma da parte di Pietro e Paolo è quella di Ireneo, vescovo di Lione, ed è datata intorno al 180
“Ma poiché sarebbe troppo lungo in quest’opera enumerare le successioni di tutte le Chiese, prendiamo la Chiesa più grande e la più importante e conosciuta da tutti, fondata e istituita a Roma dai due gloriosissimi apostoli Pietro e Paolo, e, mostrandone la tradizione ricevuta dagli apostoli e la fede annunciata agli uomini che giunge fino a noi attraverso le successioni dei vescovi, confondiamo tutti coloro che in qualunque modo, o per infatuazione o per vanagloria o per cecità e per errore di pensiero, si riuniscono oltre quello che è giusto. Con questa Chiesa infatti, per la sua più forte preminenza, è necessario che concordi ogni Chiesa, cioè i fedeli che da ogni parte del mondo provengono; con essa, nella quale da coloro che da ogni parte provengono fu sempre conservata la tradizione che discende dagli apostoli”
Si tratta di una vera affermazione non solo della fondazione della Chiesa di Roma da parte di Pietro e Paolo, ma soprattutto del suo primato su tutte le altre chiese. Come si spiega questa innovazione straordinaria che, all’improvviso, stabilisce una gerarchia fra le varie comunità, affermando di fatto quel primato della chiesa di Roma che ha condizionato e condizionerà l’intera storia del mondo occidentale? Cosa è accaduto fra il 160 e il 180 per determinare tutto questo?
La costruzione del primato del vescovo di Roma
Tutta la storia delle comunità cristiane fino alla tarda seconda metà del II secolo ci mostra l’importanza dei vari vescovi sparsi in tutto l’impero, dei loro contatti e delle loro dissertazioni dottrinali: le sedi di Antiochia, Smirne, Alessandria, Lione, Cartagine, Cesarea e così via espressero illustri teologi, ognuno dei quali proponeva una sua visione della figura del Cristo e del modo di rapportarsi a Dio. In questo contesto il vescovo di Roma non risulta godere di una particolare autorità, se non quella legata al prestigio dell’Urbe.
Nell’anno 155 circa venne eletto a capo della comunità romana un siriano di nome Aniceto. Durante gli anni del ministero, terminato con la sua morte nel 166, accaddero degli eventi importanti che potrebbero darci una spiegazione del giallo legato all’origine del primato del papato.
Il primo di tali eventi fu una visita illustre: da Smirne, all’età di 80 anni, nel 154 venne a trovarlo a Roma il vescovo Policarpo, l’ultimo discepolo diretto dell’evangelista Giovanni, su mandato di tutte le altre chiese d’Asia, per tentare di trovare un accordo sulla data di celebrazione della Pasqua. Con tale visita le chiese asiatiche riconoscevano esplicitamente il vescovo di Roma come portavoce delle chiese d’Occidente, stabilendo così un precedente importante.
Qualche anno dopo, sotto l’imperium di Marco Aurelio, esplose l’eresia montanista, con la sua svalutazione dell’autorità vescovile e del clero e la creazione di disordini, derivanti da una predicazione estatica estrema che induceva le folle ad esaltazione, che turbavano la relativa tranquillità che i cristiani si erano conquistata dopo Domiziano. A causa di queste esagerazioni si fece di ogni erba un fascio confondendo cristiani e montanisti. Moltissimi vescovi furono condannati a morte e le persecuzioni ripresero a ritmi accelerati. Gli stessi Policarpo e Giustino furono messi a morte.
Nell’anno 155 circa venne eletto a capo della comunità romana un siriano di nome Aniceto. Durante gli anni del ministero, terminato con la sua morte nel 166, accaddero degli eventi importanti che potrebbero darci una spiegazione del giallo legato all’origine del primato del papato.
Il primo di tali eventi fu una visita illustre: da Smirne, all’età di 80 anni, nel 154 venne a trovarlo a Roma il vescovo Policarpo, l’ultimo discepolo diretto dell’evangelista Giovanni, su mandato di tutte le altre chiese d’Asia, per tentare di trovare un accordo sulla data di celebrazione della Pasqua. Con tale visita le chiese asiatiche riconoscevano esplicitamente il vescovo di Roma come portavoce delle chiese d’Occidente, stabilendo così un precedente importante.
Egesippo ed Aniceto
Poco tempo prima era arrivato Roma dalla Palestina lo storico Egesippo, un ebreo convertito che citava dall’ebraico, conosceva il Vangelo degli Ebrei e un Vangelo siriaco, ed era esperto delle tradizioni giudaiche non scritte. Fu certamente vicino ai vescovi di Roma che si succedettero in quegli anni: Aniceto, Sotero ed Eleuterio compiendo perfino una missione a Corinto per conto della chiesa di Roma. Ebbene Egesippo, forte delle sue conoscenze storiche e della sua perizia nelle lingue orientali, per primo scrisse:
“Quando arrivai a Roma, ho scritto la successione dei vescovi fino ad Aniceto, e a Sotero Eleutero. E in ogni successione e in ogni città tutto funziona secondo le ordinanze della Legge, e i Profeti, e il Signore”.
Nell’elenco Egesippo attesta che Pietro fu il primo vescovo di Roma, contrariamente a tutte le fonti precedenti.
Non mi è stato facile capire questo passaggio, anche perché ogni testo moderno che parli di Pietro inizia con frasi che richiamano quella, ingenuamente categorica, di Don Bosco nella introduzione alla sua opera su Pietro:
“Mettere in dubbio la venuta di san Pietro a Roma è lo stesso che dubitare se vi sia luce quando il sole risplende in pieno mezzodì; perciò la sola ignoranza o mala fede può esserne cagione”.
Non voglio né posso prendere una posizione o fare alcuna ipotesi su una contraddizione nata oltre 1.800 anni fa, e mi sono limitato a riportare fedelmente le fonti. Tuttavia non posso esimermi dal condividere con il lettore una scoperta in cui mi sono casualmente imbattuto durante i mesi di ricerche impegnate nel tentativo di trovare una spiegazione ad un problema storico che presentava troppe incongruenze.
Fin dagli anni della mia infanzia nella biblioteca di famiglia esisteva una polverosa edizione in tre volumi, intitolata “Storia del Cristianesimo” di Ernesto Buonaiuti. Ho iniziato a leggerla con la sensazione che si trattasse di uno studio di grandissimo valore storico ed esegetico, mirabilmente scritta e piena di intuizioni interessanti.
Incuriosito dalla biografia dell’Autore ho cercato di approfondirne la figura, scoprendo un gigante sfortunato che, pur avendo subito, oltre alla scomunica, anche una sorta di “damnatio memoriae” (infatti in tutte le mie ricerche storiche non ho mai trovato un rimando o una citazione alle sue opere) è rimasto talmente cattolico da scrivere, alla fine della sua vita, le seguenti parole:
“Il Cristianesimo è l’unica democrazia possibile; perché in nessun’altra forma di vita religiosa, come in nessun’altra visione filosofica della vita, l’aggregato umano, il senso della solidarietà universale, la coscienza dell’unica famiglia del mondo hanno, come nel Cristianesimo, altrettanto rilievo e altrettanto inconsumabile peso”.
Il Cristianesimo, dunque, non la gerarchia della Chiesa, lo splendore della Curia ed il suo talvolta sinistro potere.
Buonaiuti ha avuto il coraggio, che ha pagato duramente sia alla chiesa che al fascismo, di scrivere – a differenza di altri che spesso hanno voluto trovare ciò che cercavano – ciò che aveva trovato.
Ho il piacere e l’onore di trascrivere (v. riquadro a sinistra) una sua ipotesi molto interessante di modo che che i lettori più pazienti, o semplicemente più interessati alla verità storica, possano approfondire la mia ricerca sulla improbabilità della venuta di Pietro a Roma e sulle cause primigenie del primato della sede apostolica romana.
Neanche quaranta anni dopo Tertulliano affermava che la preminenza di Roma è legata al fatto che tre apostoli, Pietro, Paolo e Giovanni, vi hanno insegnato e i primi due vi sono morti martiri. Era così nata e si era consolidata, dapprima timidamente e poi con più chiarezza, una verità (fra l’altro piuttosto confusa visto che una presenza di Giovanni a Roma non è attestata da altre fonti) che avrebbe legittimato per secoli il primato della chiesa di Roma su tutte le altre diocesi, conferitole dalle parole di Gesù a Pietro e dal suo magistero nell’Urbe.
Al punto che Callisto, nel 220, una cinquantina di anni dopo Egesippo, applicandosi ai suoi testi, affermava di avere il potere di legare e sciogliere e quindi di accogliere nella Chiesa anche gli adulteri, in quanto la sua Chiesa “era vicina al sepolcro di Pietro”.
Quanto a tale sepolcro, portato da molti come prova definitiva della presenza e del martirio di Pietro a Roma dopo le scoperte di Margherita Guarducci, esso presenta allo sguardo dello storico che considera come “vero” solo ciò che può essere provato con il metodo filologico sperimentale, lo stesso ironico stupore che dovettero suscitare agli stoici del IV secolo le reliquie portate a Roma da Elena, madre di Costantino.
“Quando arrivai a Roma, ho scritto la successione dei vescovi fino ad Aniceto, e a Sotero Eleutero. E in ogni successione e in ogni città tutto funziona secondo le ordinanze della Legge, e i Profeti, e il Signore”.
Nell’elenco Egesippo attesta che Pietro fu il primo vescovo di Roma, contrariamente a tutte le fonti precedenti.
Il Cristianesimo, dunque, non la gerarchia della Chiesa, lo splendore della Curia ed il suo talvolta sinistro potere.
Buonaiuti ha avuto il coraggio, che ha pagato duramente sia alla chiesa che al fascismo, di scrivere – a differenza di altri che spesso hanno voluto trovare ciò che cercavano – ciò che aveva trovato.
La definitiva consacrazione del primato di Roma
Con il papa Leone I, detto Magno (440-461) il primato di Roma diviene legittimo ed ufficiale, perché sancito da un editto di Valentiniano III datato 8 luglio 445 in cui venivano appoggiate le misure prese dal papa nei confronti di alcuni vescovi delle Gallie, e veniva solennemente riconosciuto il primato del vescovo di Roma sull’intera Chiesa.
Tale editto riconosceva che il primato del vescovo di Roma era basato sui meriti di Pietro, la dignità della città e il Credo di Nicea; ordinava, inoltre, che ogni opposizione alle sue decisioni, che avrebbero avuto forza di legge, doveva essere trattata come tradimento e che chiunque si fosse rifiutato di rispondere agli avvertimenti di Roma avrebbe dovuto essere ivi estradato da parte dei governatori provinciali.
Questo titolo si rafforzò notevolmente nel 607 quando l’imperatore Foca, che aveva visitato Roma e la colonna commemorativa del quale ancora si erge nel Foro romano, per contraccambiare l’amicizia del vescovo di Roma, riconobbe la supremazia della “sede apostolica di Pietro su tutte le chiese” (caput omnium ecclesiarum) e vietò al patriarca di Costantinopoli di usare il titolo di “universale” che da quel momento doveva essere riservato solo al vescovo di Roma, Bonifacio III.
Talmente era necessaria una legittimazione incontestabile su un primato papale che non era nel DNA del sistema religioso cristiano, sia per le rivalità delle diocesi, sia per le interferenze del potere secolare che voleva condizionarle per i propri scopi, che in epoca carolingia (tra il 750 e l’830) venne creato su mandato della Curia (ma non conosciamo esattamente sotto quale Papa) il falso, noto come la “donazione di Costantino” (di cui abbiamo parlato all’inizio di questo articolo), per avvalorare i diritti della Chiesa sui vasti possedimenti territoriali in Occidente e per legittimare le proprie mire di carattere temporale ed universalistico.
Dando il via alla legittimazione definitiva di quel meccanismo divino di rappresentanza ed investitura che ha giustificato fino ai nostri giorni qualsiasi ingiustificabile azione della Chiesa e dei governi.
Discorso di Joseph Georg Strossmayer vescovo di Diakovar (Croazia), pronunciato durante il Concilio Vaticano I (1870) per contestare il dogma sulll'infallibilità papale che Pio IX, con l'acqua alla gola e i bersaglieri alle porte, stava per promulgare.
"Il papato alla luce della storia e della Scrittura" p.8, Ed. Sentieri diritti. Roma 1981
Talmente era necessaria una legittimazione incontestabile su un primato papale che non era nel DNA del sistema religioso cristiano, sia per le rivalità delle diocesi, sia per le interferenze del potere secolare che voleva condizionarle per i propri scopi, che in epoca carolingia (tra il 750 e l’830) venne creato su mandato della Curia (ma non conosciamo esattamente sotto quale Papa) il falso, noto come la “donazione di Costantino” (di cui abbiamo parlato all’inizio di questo articolo), per avvalorare i diritti della Chiesa sui vasti possedimenti territoriali in Occidente e per legittimare le proprie mire di carattere temporale ed universalistico.
Dando il via alla legittimazione definitiva di quel meccanismo divino di rappresentanza ed investitura che ha giustificato fino ai nostri giorni qualsiasi ingiustificabile azione della Chiesa e dei governi.
Discorso di Joseph Georg Strossmayer vescovo di Diakovar (Croazia), pronunciato durante il Concilio Vaticano I (1870) per contestare il dogma sulll'infallibilità papale che Pio IX, con l'acqua alla gola e i bersaglieri alle porte, stava per promulgare.
"Il papato alla luce della storia e della Scrittura" p.8, Ed. Sentieri diritti. Roma 1981
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